Trauma Porn – Il dolore come performance
«Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me.»
«Ti salvò la vita.»
«Non lo mangiai.»
«Non lo mangiasti?»
«Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale.»
«Perché?»
«Che vuol dire perché?»
«Come? Perché non era kosher?»
«Certo.»
«Ma neppure per salvarti la vita?»
«Se niente importa, non c’è niente da salvare.»
Jonathan Safran Foer – Se niente importa
Nel suo libro “Eating Animals – Trad. Se niente importa” (2009) Jonathan Safran Foer ci racconta, attraverso la storia della nonna, in poche tragiche parole, l’importanza di dare valore alle cose. Come, in quanto portatori e portatrici di valori, la nostra stessa esistenza diventa carica di significato. Le emozioni che proviamo, ci definiscono, anche quando sono dolorose. Perderle, smettere di dargli importanza, ci svuota.
Nel freddo della vita, se ci scaldiamo al fuoco di feticci, luccicanti ma senza calore, lentamente, senza neppure avvedercene, perdiamo la sensibilità. Geliamo emotivamente.
Ecco perché oggi vi scrivo sul trauma porn.
Perché talvolta, ci si perde in un mondo di feticci, rischiando di gelare. L’umanità trema di freddo, ma non se ne avvede. La velocità e la illusoria facilità con cui pensiamo di poter diventare persone “importanti”– grazie ad una sovraesposizione dei fenomeni social – rallenta la nostra capacità empatica, alzando invece la velocità della nostra ricerca di like. In una sorta di stato alterato di coscienza, visibilità e followers sono capaci di farci sentire ok o non ok.
Sempre più veloce.
Sempre più d’impatto.
Sempre per meno tempo.
In un mondo che corre al ritmo di un like, non abbiamo il tempo per le domande. Dobbiamo fare di più, più in fretta, per più persone.
Tutto diventa pornografico, in quanto tende ad eccitare – seppure non senso direttamente erotico – attivare le persone verso una visione dove tutto va mostrato, fatto vedere. Dobbiamo essere instagrammabili.
L’intimo, il senso, l’etico sfuma. Nulla importa, solo il risultato, l’apprezzamento, il like. Quindi tutto può essere usato a questo fine. Tutto. Anche quanto è doloroso e traumatico.
L’attenzione agli stati d’animo, che si basa su una tempo dedicato alla relazione, con sé o con le altre persone, latita. Se vogliamo tenere il ritmo dobbiamo prendere dimestichezza con il meccanismo non possiamo permetterci di andare in profondità.
Emozioni ed eventi della vita hanno bisogno di tempo, l’elaborazione non è questione di attimi, dire “sto bene” non corrisponde sempre alla verità. Abituarci a correre, senza avere tempo per i significati, finisce con l’adattare il nostro cervello a dei ritmi che non gli sono propri, ritmi che può reggere solo in parte. La reputation online è veloce, la consapevolezza lenta.
La meraviglia si illumina in un lampo e si spegne altrettanto in fretta. In questo lampo, non c’è tempo per il dolore. Il dolore necessita tempo, cura, ascolto.
E sulla superficie tutto è liscio e semplice.
Il trauma porn è il dolore che diventa oggetto da consumare.
Si raccontano alla velocità di un post, eventi carichi emotivamente, resi semplici per essere fruibili. Non c’è un vero racconto ma una spettacolarizzazione. Il trauma porn, di cui si comincia a parlare, rappresenta una sorta di fascinazione che si prova per eventi traumatici, dolorosi, vissuti da altre persone. Vengono condivisi, twittati, talvolta messi in scena. Esempi? Alcuni brutali eventi raccontati con minuzia di particolari, video che girano di morti tragiche, come capita per le morti di persone di colore durante l’esplosione del Black Live Matter, video che possono creare trauma vicario o rendere nuovamente attuale la sofferenza di chi certe scene le ha vissute, certe morti le ha nella sua storia.
Rendere il trauma immagine non smuove la coscienza, non sensibilizza ma rende vuoto quanto è pieno di umanità, disumanizza e rende, al contrario, meno insensibili.
Dopo il primo salto dal trampolino, dove quello che ricordiamo è solo l’adrenalina del momento, si cerca di saltare sempre più in alto, fino che quello che abbiamo intorno perde contorno, si fa sfumato e resta solo la sensazione del salto.
Altro esempio. Passiamo al social Tik Tok, nato per chi non è nato prima di metà degli anni ’90 e popolato per lo più da chi è nato dopo il 2000, si inseguono challenge (sfide) sempre diverse, dove ci si mette in gioco cercando di attirare più like possibili. Una di queste, riguarda una ferita aperta sulla pelle dell’umanità. I lager, la morte nei campi di stermino, l’olocausto. Moltissimi giovanissimi, stanno girando video dove lo mettono in scena, definendosi essi stessi – per i pochi secondi che deve durare il video – morti o scampati ai campi. Interrogati sulla scelta, a loro modo, raccontano anche sia un modo per sensibilizzare. Accogliamo la loro difesa, probabilmente persino in buona fede, ma cosa accade nella nostra mente, che partecipa da spettatrice a questa e moltissime altre spettacolarizzazioni del dolore, del trauma?
Il dolore che sconvolge ci rende sempre consapevoli?
Il meccanismo di rendere, in veloci immagini, eventi traumatici, non necessariamente in forma di challenge, ci rende emotivamente più empatici? Abbiamo il tempo, in video nati appositamente super brevi, per sentire?
La sofferenza rischia di diventare un espediente per guadagnare visibilità. Senza uno spazio per comprenderla, per sentirla. L’empatia costa troppo. E non paga.
Quello che per qualcuno è la sua storia, rischia di diventare solo quello che appare, un video di pochi secondi per dire al mondo che ci sei, l’immagine è efficace a questo fine ma affievolisce la capacità di permarsi a riflettere.
Il mostro diventa innocuo se visto come una star, acquista in fascino e perde il suo carattere di mostruosità man mano che diventa più manifesto.
Il trauma – che può essere di molteplici nature – diventa la possibilità di sconvolgere l’altro per attirarlo a sé (farsi seguire, piacere), il suo valore è proporzionale al numero di persone che riesce ad attrarre proprio perché eccessivo e potente.
Ma se io quel mostro l’ho conosciuto? Se sono una vittima reale di quel dolore?
Chi è vittima di trauma, fisico o psicologico che sia, può reagire a tale uso del suo vissuto in maniera ben diversa. Lo spettacolo messo in atto, il meme, il gif, il gioco di parole, può innescare – nuovamente – il suo dolore, reale.
Il trauma vissuto torna ad essere presente, lo stress da disturbo post traumatico si fa sentire. Si attiva una ri-traumatizzazione della persona che non segue le leggi della popolarità social ma quelle – più insidiose – della mente, della ferita emotiva.
Lo spazio digitale, congestionato e mutevole, carico di meme e osservazioni spiritose, ma con protagoniste immagini inquietanti, diventa lo spazio spaventoso che ospita un campo minato emotivo.
E noi, che veniamo sottoposti a continui contenuti forti, sovente disgustosi e ancor meglio se raccapriccianti, cominciamo a vedere nel dolore una performance. D’altronde lo spettacolo non deve fermarsi.
Ma, in assenza di una buona educazione all’affettività, di una conoscenza del mondo emotivo proprio e del rispetto per quello altrui, questa sovraesposizione al trauma ad effetto, ci allontana dalla realtà. Ci saccheggia di consapevolezza e attenzione all’altro- I risultati potrebbero essere simili a quelli che la pornografia ha su chi viene esposto a troppi film porno senza una adeguata educazione. Il sesso diventa performance, centimetri, potenza, meglio se poco rispetto, specie per le donne. La connessione emotiva, il piacere come linguaggio, si perde, con tutti i problemi che questo genera specie nelle persone più giovani.
Il rischio sarebbe allora che i social media spoglino di valore, tolgano i contenuti e tengano per buono il pacchetto (come dire che tolgono il netto, collezionano la tara e il lordo è solo l’insieme, l’espediente).
Il potere trasformativo dell’emozione condivisa si diluisce, si perde. Ma non per chi quelle emozioni le ha vissute sulla pelle che, invece potrebbe vedere riattualizzare un dolore e un trauma presente nella sua storia.
Il trauma porn non veicola emozioni che spingono all’azione, ma nei migliori dei casi, una momentanea indignazione social fine a se stessa. Quando non prende caratteristiche più voyeuristiche, resta comunque un che di perverso nell’uso del tragico altrui per creare impatto emotivo.
Ma il dolore che spaventa di più, quello che smuove è quello che non si vede. La testimonianza che muove emozioni di cui impariamo ad essere consapevoli. La vulnerabilità dell’altro deve essere rispettata, l’indignazione che non porta all’azione – e in una richiesta chiara di cambiamento emotivo, affettivo come politico e sociale – resta un venticello che serve solo a sentirci a posto.
L’inchiostro sa quante frasi nascondono i silenzi.
Caparezza
Il dolore più potente è quello non visto, nascosto in bella vista, immaginato.
Lo stesso motivo per cui toglie il sonno il film horror cresciuto sulla tensione mentre lo splatter si dimentica in fretta, diventa fonte di divertimento, può dare fastidio, raramente smuove un pensiero.
Mentre questo uso dei media non sensibilizza. Non in certe loro manifestazioni che consumano e non elaborano. Creare l’evento, lo stupore momentaneo, non fa prendere davvero posizione, più facilmente ci distrae. Vediamo troppo, proviamo troppo poco. Dovremmo focalizzarci su una educazione al contrario, sentire di più, sintonizzarci sulle connessioni emotive con noi stessi e gli altri. Un lavoro importante, di controtendenza, ma sappiamo che se “nulla importa, non c’è niente da salvare” (cit.).