
Il Dolore che portiamo con noi (e che tanto ci insegna)
Un dolore autentico, indiscutibile, è capace di rendere talvolta serio e forte, sia pure per poco tempo, anche un uomo fenomenalmente leggero; non solo, ma per un dolore vero, sincero, anche gli imbecilli son diventati qualche volta intelligenti, pure, ben inteso, per qualche tempo.
Fëdor Dostoevskij, I demoni, 1871
Passiamo buona parte della vita a fuggire il dolore. La sola certezza è che non vogliamo soffrire.
Anche la nostra salute ne viene a volte limitata, evitando visite che temiamo possano farci male, non solo per l’immediata sofferenza fisica ma anche per la responsabilità di cosa ne risulterebbe. Cantava Sergio Caputo anni fa, giustificando il perchè non si prendesse cura della sua salute
[…]Perchè non vai dal medico?
E che ci vado a fare? Non voglio mica smettere di bere e di fumare.
Diventiamo bravi in fretta a fuggire quello che potrebbe farci male, lo impariamo da piccoli se nessuno ci insegna il contrario. Anche se un piccolo fastidio oggi, tipo quella visita che non abbiamo ancora fatto e continuiamo a rimandare, potrebbe farci stare meglio domani, regalarci un benessere più grande. Eppure quella telefonata per prenotare l’incontro con il professionista sanitario, medico o psicologo a seconda del problema,ci sembra una operazione impossibile da accettare, preferendo un più semplice status quo seppur rivestito di malessere.
Amiamo persone che ci feriscono. Viviamo in città che odiamo. Occupiamo posti di lavoro che non ci piacciono, spesso senza neppure tentare di cambiare le cose. Perché?
Il dolore che conosciamo ci rassicura. Ci sono occasioni in cui si ritiene persino di meritarlo. Difficilmente siamo pronti ad attraversare una sofferenza nuova, ignota, che pure ci potrebbe portare altrove, in un posto migliore.
“Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, ci insegnava Shakespeare nella sua meravigliosa “La Tempesta”. Ma siamo fatti anche del nostro dolore. Un dolore che ci rende unici, che ci ricorda ogni singolo istante della nostra esistenza, un dolore che è scritto nella mente e nel nostro corpo. Gesto dopo gesto.
E i nostri sorrisi, brillano più forte tanto più sono stati coltivati in quello stesso dolore. Quel male che ci toglie il sorriso, che ci congela in comportamenti per noi dannosi, non è altro, in fondo che quanto di più intimo e nostro abbiamo. Abbiamo molto da imparare ad ascoltare il nostro dolore, indiscutibilmente la nostra voce vera. Una voce di cui però dobbiamo prenderci cura.
Rincorriamo il piacere ma è nel dolore che impariamo tanto di noi.
Un sentire primitivo, che non possiamo in nessun modo evitare e che se davvero fosse evitabile, ci allontanerebbe, in fondo, dalla nostra umanità. Lo fuggiamo con tutti noi stessi, lo nascondiamo dietro certi sintomi, evitando certi luoghi e certo posti, scappiamo lontano cercando la pace in sostanze, nella tecnologia, in relazioni che ci prosciugano ma non smettiamo mai di sentirlo completamente. Allo stesso tempo, il dolore può permetterci di sentirci apprezzati, ne traiamo quello che viene definito un vantaggio secondario. Perchè se siamo malati si prenderanno cura di noi e allora somatizzare diventa una possibilità di avere qualcuno vicino, se siamo fragili ci prenderanno per mano, seppure non ci piace il nostro rapporto di coppia, almeno abbiamo qualcuno accanto che ci vede. Certo, sono vantaggi potenzialmente pericolosi e che non ci fanno bene davvero, ma ci sono momenti della vita in cui non crediamo di poter scegliere per il nostro bene.
Nel tempo, il suono del nostro dolore, la sua voce, è sempre lì, in un canto come di sirene, che noi, coraggiosi Ulisse, possiamo decidere di non evitare, ma di ascoltare per capire, imparando a domarlo senza che ci faccia impazzire.
Chi vuol vedere perfettamente chiaro prima di decidersi non si decide mai. Chi vuole prevedere tutto e non lasciar nulla al caso rimane immobile. Chi non accetta il rimpianto non accetta la vita. - L'irrazionale dunque è razionalmente necessario e la razionalità pura è impotenza pratica. Nulla è senza rischio, e chi non rischia nulla non ha nulla. Henri-Frédéric Amiel, Diario intimo
Ognuno di noi, vive qualcosa di unico. Ogni dolore è diverso dall’altro, anche quando siano simili le sue radici. Ogni storia crea il suo dolore, nasce nelle relazioni che viviamo, dal primo momento, e ancor prima, della nascita. Appena nati si scopre la fame, la seta, il sonno. Prima di questi il parto stesso ci porta alla vita attraverso un momento che fa male.
Venuti al mondo, impariamo a comunicare per lenire il nostro dolore e le risposte che riceviamo ci insegnano cosa provare, tracciano la strada per quello che saremo.
Con il tempo, le relazioni e le dinamiche si rinforzano ed il dolore diventa complesso, presto la fame non è più solo un bisogno fisiologico. Il dolore che impariamo ci racconta se siamo amati, se siamo soli, se qualcuno si prende e come cura di noi. Il modo in cui conosciamo il dolore inizia a riempirsi di significato per quello che rappresenta, per come lo si è vissuto, per la storia che ci ricorda.
Quello che ci fa stare male, non ci fa stare male semplicemente perché accade.Ma per il significato che noi gli diamo.
Il significato che diamo ad ogni singolo dolore lo rende così travolgente ed unico. Non è mai solo quello che sperimentiamo in maniera diretta quanto piuttosto la nostra personale interpretazione di quanto ci accade. Abbiamo bisogno di dare un significato, anche se negativo e crudele. Perché abbiamo bisogno di una storia del nostro dolore e la storia diventa quello che siamo, anche quando non corrisponde alla piena realtà, anche quando non ci rappresenta davvero. Così, se mi sento di valere poco perché mia madre era sempre presa da altro e non mi ha mai guardata, quanto vivrò in seguito sarà il proseguimento di quella storia e quel dolore (non sentirsi visti) sarà il compagno di molti momenti, sul lavoro, con gli amici, con le persone che si ameranno, nelle coppie che formeremo.
Fino a quando non sarà possibile uscire dalla prigione che ci siamo costruiti, scrivendo una storia diversa. Ascoltando quello che il dolore tenta da sempre di raccontarci.
Ascoltare il nostro dolore non per fuggirlo ma per riempirlo. Non per eliminarlo, ma per togliergli il potere di farci stare male. Solo dandogli un senso possiamo superare il dolore. Arrivando all’origine del nostro trauma, dei nostri ricordi tristi, delle mancanze che ci sono state, magari anche senza l’intenzione di ferirci, ma ci sono state.
Evitando di cadere nel baratro della colpa, divoratrice insaziabile della nostra serenità.
Un dolore tra i più invadenti e infelici. In molte storie, la colpa nasce dall’infanzia, sin fai primi scambi tra l’adulto di riferimento e il bambino. Si impara presto a sentirsi cattivi, a pensare di non essere amabili, a credere sia giusto non arrivare mai a stare bene. Ci sono storie che iniziano con una lotta tra ciò che si è e si sente di voler essere e la mancanza di riconoscimento del genitore, storie che sono piene di sana aggressività infantile, che aiuta solo a manifestare chi siamo, ferita dai veti e dalle paure, il sacrificio di un naturale bisogno di autonomia che viene bloccato dai divieti dei grandi, fino a riempire di un senso di inferiorità che crescere con il bambino, diventerà il suo dolore. Più fragile viene cresciuto il bambino, più vulnerabile potrebbe sentirsi l’adolescente, insicuro l’adulto.
Ecco che da certe mancanze avvenute in passato, si impara come adattarsi alla vita per non stare troppo male e questo crea, nella nostra personale evoluzione, una falla che ricopriremo bene perchè non sia visibile, a noi stessi per primi. Dipenderà molto da quanto questa sia profonda e ampia, la riuscita di una crescita serena.
Fino a quel giorno in cui si decide di affrontare il dolore, la paura e si accetta il rischio di superare quei vuoti per riempirli di bellezza.
Allora, rischiando, possiamo lentamente riconoscerci in quello che siamo. Ritrovare la nostra unicità, esercitare il nostro diritto alla soddisfazione, facendo strada al desiderio e alla passione. Questo significa ritrovare la nostra potenza generativa, quella che ci permette di dare la vita al nostro presente, in maniera consapevole e positiva. Si tratta spesso di un percorso faticoso, dove si potrebbe non riuscire da soli ed è bene, in questi casi chiedere aiuto ad un professionista che possa sostenere il viaggio alla ri-scoperta di sé. Un viaggio fatto di coraggio, sofferenza e creatività.
Creatività si nutre di coraggio, piacere di esistere, riconoscersi visti nello sguardo dell’altro.
Quando ci fermiamo a guadare cosa c’è dentro al nostro carico di dolore, ci assumiamo la responsabilità sulla nostra vita, definiamo una nuova sintonia, la costruzione di una nuova fiducia in sé, sensibile alle esigenze e ai bisogni ma anche capace di non caricarsi di colpe. Questo è il lavoro dello psicologo, usare la sua competenza per sostenere i coraggiosi che vogliono guardare dentro al loro dolore e sentire di poter cambiare.
Il nostro dovrebbe essere una sorta di lavoro da ostriche: fare di ogni dolore una perla. Giovanni Soriano, Maldetti
Nel cammino alla scoperta del proprio dolore, impariamo a non temere l’errore, accettare la fatica che accompagna la conquista dei propri obiettivi e insieme il timore di rischiare. E accettare la paura permette di superarla e di cambiare.
Diventiamo un capolavoro, diventiamo quello che siamo sempre stati, sotto quello che pensavamo di dover essere.
Il dolore sarà ancora con noi, ma avrà un peso diverso, se riusciamo ad affrontarlo, non sarà più quel macigno che non ci fa andare avanti, ma solo quel taciturno compagno di viaggio che ci accompagna, per ricordarci, solo ogni tanto, quali sono le bacche velenose che incontriamo lungo il sentiero.
Pollicino: Il bagaglio di dolore che ci trasciniamo dietro
L’Orco : I traumi vissuti, le mancanze subite che ci trattengono dall’essere sereni
L’arma segreta : Ascoltare il nostro dolore per rispondere alle domande che ci sono trattenute dentro