Colpevole è chi uccide. Ma siamo tutti responsabili. Violenza e Roseto Effect
Le parole sono azioni.
Ludwig Wittgenstein
Federico Moccia, autore di libri molto letti, ha scritto queste parole per il Corriere della Sera (18 ottobre 2018).
Se un uomo di una certa età decide di uccidere la moglie o la compagna di una vita, perché magari è deluso dal fatto che certe dinamiche di coppia siano cambiate, perché il suo progetto di vita si è interrotto e con esso la complicità che c’era, o perché magari non si è trovato prima il modo e il coraggio di dire che un sentimento era finito da anni, il suo gesto tradisce il valore del tempo e l’obbligo etico che abbiamo tutti di viverlo al meglio e con sincerità, ma la loro colpevolezza è pari.
Poi si è scusato. Ma le parole sono azioni. E hanno agito sulla mente di chiunque le abbia ascoltate, per indignarsi, per dissentire o per sentirsi capiti, per giudicare.
Ci si prende sempre una grande responsabilità a parlare di violenza.
Bisognerebbe andarci molto cauti perchè parliamo di vite, entrambe in pericolo. Una in pericolo perchè agisce violenza e l’altra perchè la subisce. Sono vite tragiche quelle che non si sono permesse di vivere serenamente, quelle che non riescono a pensare di meritarsi una carezza invece di un pugno, quelle che si sentono sempre aggredite e per questo vivono continuamente cariche di rabbia. Ma nella drammaticità di due vite che soffrono, una subisce, l’altra agisce. Colpevole è chi uccide.
Chi lavora con le coppie, e con le relazioni in genere, sa bene quanto quello che accade in una relazione sia il risultato dell’interazione, di un incontro quasi mai fortuito. Un universo circolare dove una azione, una parola, una modalità relazionale richiama e si determina nella successiva. La relazione che unisce le due parti vede due persone coinvolte, ma i risultati di quella relazione, non sono uguali. La violenza uccide e colpevole è chi uccide.
La vittima va protetta, prima di tutto dall’idea che meriti quanto le accade.
La vittima ha la sua storia, come l’aggressore. Le storie che abbiamo vissute e che ci hanno determinato ci inseriscono in fitte trame di significati. Ricostruirle è lavoro delicato. Chi lo fa deve sapere come sia sottile il ghiaccio su cui cammina. Perché quando parliamo o scriviamo, sopratutto se quello che scriviamo, per qualche malaugurato motivo, è letto da milioni di persone, siamo responsabili di ogni singola parola.
La parola agisce sul cervello e lo modifica, agisce sulle moltitudini e gli offre un facile metro di giudizio delle cose. E la via più semplice è sempre la più trafficata.
Una affermazione come “la loro colpevolezza è pari” semplifica la vita a chi ritiene che le donne, in fondo, “se la sono cercata“. Crea un effetto che non fa altro che rendere semplice ciò che è delicato e complesso. Segna un netto giudizio, pericoloso, laddove sarebbe più responsabile e rispettoso osservate e tacere.
Ma la storia della nostra vita, almeno nei suoi primi capitoli, non ce la siamo cercata. Ci siamo finiti dentro. A qualcuno è andata meglio. E non tutt* hanno la fortuna di trovare in se stessi la forza per cambiare come continuarla.
Girando per i ricordi della mia vita, ho trovato il racconto che segue. Mi era stato fatto anni fa, durante il mio soggiorno in Perù, da una donna di nome Rosa che avevo avuta la fortuna di conoscere. Ero stata ospite a casa sua per un piccolo periodo, accolta dalla sua dignità, dalla sua dolcezza e dall’allegria che aleggiava tra lei, sua figlia e la loro anziana cagnolina. Oggi mi è tornato in mente, l’ho cercato e ve lo riporto.
“Quando sono rimasta incinta avevo 15 anni. Stavo con il mio ragazzo da un anno ma non sapevo che dovevo fare. Mio padre beveva, picchiava mia madre, chi mi poteva spiegare qualcosa? Ero terrorizzata” mi dice Rosa.
Ora e’ una donna, curata, giovane, bella. Parla calma e la sua voce e’ profonda. Mi guarda negli occhi. Ha occhi scuri e profondamente seri.
“Le cose dicono che sono cambiate, ma non e’ del tutto vero. Siamo sempre un paese machista. Io con mia figlia adesso parlo. Ma non e’ facile.”
Sono una donna fortunata, mi dico mentre cammino al suo fianco. Solo mi vergogno del suo credermi migliore, perché nata in un paese che profuma meglio ma nasconde sotto il tappeto la stessa puzza nauseante. Penso alle donne come lei e agli uomini come suo marito. Perché anche gli uomini finiscono con l’essere una vittima. Della loro ignoranza, del loro dovere di apparire sempre una fortezza inespugnabile. Questa e’ la loro infinita fragilità. Quale uomo potrebbe permettersi oggi, per le strade di questa città, di dirmi che ha avuto paura, che non sapeva che fare, che il sesso alla fine e’ arrivato come una sorpresa, che quel figlio non ha capito come e’ venuto fuori? (Lima, 2007).
La nostra storia ci racconta. Qualcuno ha la fortuna di trovare le risorse, a volte basta una persona che ti tende una mano, per allontanarti da una fine sicura. Rosa aveva incontrato quella persona, l’aveva aiutata a cambiare la storia. L’aveva portata via da quella famiglia con una bimba da crescere, l’aveva portata a lasciare il marito, anche lui presto violento, e a trovare un lavoro. Oggi sua figlia studia tra il Perù e l’Europa e sono una famiglia fantastica, che ancora illumina i miei ricordi.
L’abitudine alla violenza non può rendere colpevoli per quello che si subisce.
Non dobbiamo MAI, MAI abbassare la guardia se parliamo di rispetto alle persone. Dobbiamo invece avere presente che siamo parte di un contesto e che le nostre azioni possono cambiare il destino di chi è intorno a noi. Perchè quando parliamo di violenza sulle donne dobbiamo ricordarci che ogni nostra azione/parola definisce il contesto e cambia il clima in cui questa tragedie possono o non possono trovare terreno fertile.
Per cambiare la violenza, dovremmo guardare oltre la singola storia. Modificare la cultura di appartenenza in cui siamo immersi. Cambiare la violenza dipende anche dalle persone che ci circondano, dai valori che definiscono il nostro mondo, i commenti sui giornali che leggiamo.
Conoscete la storia di Roseto? E’ una storia che ci insegna che il successo lo determiniamo insieme.
Si tratta di una comunità americana nata da immigrati italiani. Un primo gruppo di rosetani, abitanti di Roseto Valfortone, nel 1882, salparono alla ricerca di fortuna dall’Italia, esattamente dalla provincia di Foggia. Volevano arrivare nell’America ricca di speranze. Nei decenni la comunità crebbe e decise di battezzarsi con il nome familiare di Roseto. A parte le abitudini alimentari, che si erano adattate alla cultura americana del cibo (non particolarmente salutare), i rosetani avevano ricostruito una comunità coesa, unita, solidale. Attirarono l’attenzione della scienza quando si notò che le persone di Roseto morivano molto più tardi e soffrivano problemi cardiaci molto meno che nel resto del Paese. La spiegazione che fu possibile dare era che l’effetto Roseto era il risultato della vita di comunità.
Furono Stewart Wolf, medico e il sociologo John Bruhn a studiare per primi la strana storia di Roseto (come potete leggerla in vari libri, in italiano nel libro di Malcolm Gladwell – Fuoriclasse, 2008) e a raccontarcela come il successo della comunità sullo stato di salute dei suoi componenti.
Cosa ci suggerisce il Roseto effect? Che la comunità è una variabile più forte della genetica e persino delle abitudini alimentari per prevedere il nostro stato di salute. Allo stesso modo, le relazioni che formiamo e la cultura che costruiamo insieme sono un potente antidoto o un terribile facilitatore della violenza.
Anche per questo dobbiamo fare un passo indietro quando raccontiamo l’orrore.
Perchè ogni nostra parola definisce il contesto dentro cui quella violenza nasce e si muove. Le nostre azioni devono agire in modo da evitare il proliferare di storie tragiche, non giustificarne la presenza.
Possiamo creare una comunità che cresca persone che non sentano di meritare maltrattamenti, che non apprendano come unico linguaggio quello della violenza e che in entrambi i casi, sentano di poter cambiare. Le storie possono cambiare.
Ognuno di noi, pur diversamente, ha il potere di trasformare la sua realtà e con questa la realtà di tutt*. Vorrei un mondo con più storie come quella di Rosa e meno articoli come quello di Moccia.
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