
Confessioni di una Psicologa -Di tempo che passa e fazzoletti-
E’ molto importante che il terapeuta riconosca che là dove c’è vita c’è follia. La vita non è l’adattamento sociale. La vita non è l’ora di terapia. La vita non è in nessun contesto interpersonale. La vita è l’espressione della totalità del sè, l’individuazione interiorizzata di una fierezza creativa e personale. E’ la negazione della schiavitù nei confronti della razionalità del conformismo, dei vincoli della cultura, del tempo, dello spazio e dell’angoscia.
Carl Whitaker –
Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia
Se non puoi essere un’autostrada, sii solo un sentiero,
se non puoi essere il sole, sii una stella;
Non è grazie alle dimensioni che vincerai o perderai:
sii il meglio di qualunque cosa tu possa essere.
Douglas Malloch
Di quel giorno ricordo un pugno piantato sul tavolo.
Non uno di quei pugni che fanno saltare dalla paura, un pugno timido, seppur deciso, che picchia sul tavolo accompagnato da un respiro-sospiro profondo.
Era il mio pugno, il mio respiro.
Ricordo ancora quello che mi ha detto poi, chi mi guardava le spalle – non tanto per senso di protezione, quanto per posizione nella stanza. Mi disse che aveva temuto alzassi la voce, che magari manco mi facevano laureare. Perché il pugno voleva essere un richiamo, un attirare l’attenzione. Ero la laureanda e, in quello stretto sgabuzzino imbiancato dove stavo discutendo la mia tesi, sembrava che tutti si perdessero in convenevoli tra esimi colleghi, giocando con la mia vita senza neppure ricordare il mio nome.
Venti anni fa. 27 novembre 1998. Facoltà di Psicologia.
Poi venne la vita fuori dall’Università, quella a cui non ti preparano mai, e ricordo la paura di non essere in grado e poi la noia di non avere abbastanza da fare.
L’entusiasmo vibrava ogni lunedì mattina.
Era il giorno di supervisione nel Centro dove facevo la mia esperienza di tirocinio. L’esperienza era propedeutica all’esame di stato, che avrei affrontato qualche tempo dopo. E’ stato durante quelle riunioni che ho imparato la magia. Riunioni in cui le parole erano dense, disegnavano nell’aria possibilità mai pensate fino ad allora, parole che semplificavano situazioni complesse in poche linee, come un labirinto che si trasformava in una linea retta davanti ai propri occhi.
Veniva da applaudire in quei lunedì. Era magia ogni volta che una storia si ricomponeva davanti ai miei occhi.
Scoprivo la magia e aveva un nome: terapia.
Sentire per la prima volta lo sguardo che guarda al sistema e che rende semplice pensare ad un nuovo paradigma. E aveva suoni nuovi, accattivanti e seducenti.
Matasse complicate messe ai piedi del/la terapeuta che le osserva con curiosità, le prende delicatamente tra le mani, le soppesa e con due cenni, due movimenti veloci e le rende ordinate, con un capo e una fine.
Terapia è stata allora un suono e un comando, un ordine delle cose, un avvicinarsi e allontanarsi come in una danza che finisce con il raccontare una storia diversa da quella che appena sentita. Devo ringraziare il Professor Luigi Cancrini per quella scoperta, per avermi indicato, senza vedermi neppure, quale era il mio posto nel mondo della psicologia. Nei giorni che non mi sembra di aver azzeccato il presente, è con lui che me la prendo per la scelta fatta in quel momento. ma in tutti gli altri giorni è gratitudine quella che provo.
Sicura che il mio posto fosse nei tribunali per i minori mi stavo formando in Psicologia Giuridica, la mia tesi era su quello e poi eccolo.
Il cambiamento. L’incrocio dove scegli di prendere un’altra strada.
Ho scelto sarei stata una terapeuta anche se sapevo che non sarei stata la migliore, ma ero certa valesse la pena. Sarebbe stata una strada di sacrifici, ma era la sola strada che mi sembrava di poter percorrere.
Mentre studiavo, correvo, studiavo, lavoravo, correvo e trovavo anche il tempo per vivere, ho imparato cosa significa per me essere una psicologa.
Ho capito anche che non si possono abitare i mille universi delle persone che incontriamo dall’alto di una torre di marmo, seppure avvolta in un piacevole tepore. Proteggersi dalla vita non serve quasi mai, se vuoi essere terapeuta ancor meno. Perchè se non hai accettata la tua fragilità rischi di nasconderti dietro ad un muro di giudizio e giudicare è il contrario di fare terapia. Questa nasce invece dal fare proprio, empaticamente, un diverso mondo emotivo per fare in modo che sia lo stesso protagonista di quel mondo a trovare le sue risposte, sereno di sapersi al sicuro da ogni etichetta e facile verdetto.
Bisogna vivere, farsi male, piangere, ridere a crepapelle e amare moltissimo, persone e animali e creature soltanto sognate. La vita insegna l’umiltà, la forza, il rispetto delle storie degli altri.
Facevo lavori che odiavo e, ogni tanto, maledicevo la mia fatica. Ma è la stessa fatica che mi rende, oggi, quello che sono. Quelle vacanze con poco e niente, quelle corse in motorino per la città, quei libri che mi regalavo con parsimonia mi hanno aiutata a non dimenticare il valore del sacrificio e usare sempre scarpe basse quando mi metto vicino agli altri.
La psicologia non è un buon investimento, mi dicevano. Ma probabile avessi già allora problemi all’udito, perché a tanta assennatezza non ho mai dato ascolto.
Oggi sono una libero professionista che vive storie pendolari tra Torino e Torre Pellice.
Sono passati quasi quindici anni anche dalla fine della mia specializzazione e oggi sono una psicologa. Vivo in Piemonte, una regione che non mi ha visto nascere e forse manco mi voleva, eppure sono qui e ormai stiamo diventando, se non amiche, reciprocamente rispettose. Vorrei raccontarvi che sbroglio matasse alla velocità della luce e risolvo quanto è senza soluzione. Invece no.
Sono una persona, finita, manchevole, talvolta triste, energica, moderatamente ottimista con momenti grigi e altri luminosissimi.
Non lo so se faccio il lavoro più bello che ci sia, di certo è uno dei più complessi.
Ci sono notti che ancora vado a dormire con un peso sul cuore e altre che devo legare dei pesi alle caviglie per trovare il pavimento. Le notti in cui l’entusiasmo per quello che ho vissuto mi porta a sentirmi quasi galleggiare. E’ un mestiere complesso, pieno di fatica, dove non si impara mai del tutto e l’errore è sempre dietro l’angolo.
Spesso si cerca di dipingere il lavoro della psicologa come una passeggiata, un fiorire ininterrotto di meraviglie. Non è proprio così. Spesso piove e seppure l’arcobaleno spunti quasi sempre, la pentola di monete d’oro non solo non l’ho mai trovata, ma continuo a credere sia proprietà dell’arcobaleno e non roba mia.
La psicologia è un mondo. Visto da fuori non è facile orientasi, visto da dentro si rischia spesso di perdere la strada. Non possiamo mai dimenticare cosa siamo, ma mai oltre una certa ora di sera, quando è bene allontanarsene.
Oggi fare la psicologa è – quasi- tutto quello che so fare.
Il mio mestiere è permettere alle persone di salvarsi da sole. Risistemo la fiducia in persone che ne hanno persa troppa, una sorta di trasfusione di emergenza, quando non una lenta operazione di rinnovamento.
Sono in tuta da lavoro, tra i meccanici Ferrari che attendono l’auto al Pit-Stop. controllo sia tutto ok prima che possa riprendere la corsa.
Sono quella che rintraccia segnali di vita sotto le macerie, con l’orecchio premuto contro la terra a cercare ogni timido suono, ogni frammento vitale da cui si possa ripartire.
Chi va dalla psicologa può avere vissuto esperienze traumatiche antiche o aver perso la fiducia per ferite recenti. In ogni caso cercano aiuto.
Sono le giornate nere o l’incontro sbagliato a cui ci si preparava da tutta una vita. Sono i traumi che non ti aspetti e ti feriscono con la violenza dell’improvviso o le relazioni sbagliate, che sfiniscono la fiducia nella vita stessa. Situazioni che violano, maltrattano, prendono a calci finché resta poco oltre la paura e la rabbia.
Ma non solo. Arrivano dalla psicologa anche storie che sono voglia di correre più veloce, la ricerca del permesso di aprire le ali e solcare cieli pensati impossibili, il desiderio di potersi dire “Vai bene” mentre fuori si è abituati ad altre parole, insulti che fanno dimenticare la strada di casa. Storie di persone che vogliono solo stare ancora meglio dello stare bene. Perché sanno che con poco aiuto possono arrivarci.
Volete sapere com’è la vita di una psicologa? Eccola.
Ogni giorno nel mio studio, arrivano persone e si siedono.
Ci sono le persone che arrivano con la loro fiducia ferita tra le braccia.
Sono mastodontici nel loro dolore, senti la loro fatica e vedi quella luce che si affievolisce nel loro sguardo. Ricordano la maestosa ed elegante sofferenza della Pietà, quella del Michelangelo. Il corpo del Cristo è abbandonato, malconcio, ma la madre ha una dignità che non si abbandona in disperazione, non urla, non accusa, non si ribella. Sostiene quello che rimane di suo figlio con la forza che gli resta, quella non ingoiata dal dolore, quella che anzi nel dolore trova la sua tenacia, la sua impossibilità di accettare la resa.
Ecco, molte persone entrano nel mio studio con la stessa dignità.
Tra le braccia portano il fantasma di quello che erano, mostrano tutte le ferite subite e sono enormi. Hanno anime immense, forti e non tradiscono il mare magnum di sofferenza ed emozioni che li attraversa. Quando ti porgono la loro fiducia ferita, uno straccio malconcio raccolto tra le loro braccia, lo fanno con un fondo di timidezza, quasi si stupissero di riconoscersi in quel gesto, di chiedere aiuto. Talvolta senti quello che pensano. Pensano che, in fondo, lo straccio è loro, che una punizione, magari, se la meritano anche. Sono pronti a sentire il verdetto, ne hanno ascoltati tanti negli anni e ti guardano con l’emozione di una attesa che si conosce, che termina nella colpa e nella vergogna. E tu vedi la loro meraviglia quando li accompagni ad un modo nuovo di prendersi quello che è loro. Senti la loro forza denutrita ma non paga, la senti serpeggiare tra le dite che ti mostrano quella fiducia stropicciata e ferita. E lentamente li sorreggi mentre si prendono cura di quello che hanno tra le braccia. Fino a quando non gli servi più.
E ci sono le persone che il divano è quasi come fosse casa loro.
Le vedi entrare in stanza allegre, come dopo una lunga giornata di impegni ci si concede una pausa. Sono toniche, colorite e colorate, in salute e tutte gioviali ti raccontano di questo e di quello. La voce è squillante, energica, trema solo ogni tanto, su certe parole dette più in fretta di altre, proprio perché non sia possibile fermarcisi su.
Sembrerebbero aver solo voglia di avere un piccolo, piccolissimo -una sola unità- pubblico, tutto per loro. Sorridono, si guardano intorno, ti fanno piccole domande furbe, che sono provocazioni o curiosità o solo voglia di sentirsi a casa.
Sono le persone a cui fare più attenzione.
Perché, se non ne facciamo, possiamo perdere la possibilità di trasformare quell’appuntamento settimanale, in una occasione. Perché, se li si guarda bene, tra un sorriso e l’altro, tra un gesto di complicità e una pacca sulla spalla, metaforica o no che sia, possiamo intravederlo. Spunta da una giacca, esce fuori da una scarpa, a volte se ne sta nascosto dentro un cappello o lo zaino, fa capolino da sotto un maglione over-size o incastrato tra i raggi un ombrello. Un fazzoletto piccolo e raggrinzito, sporco dagli anni e liso sugli angoli di cui però di immagina ancora la grandezza e la bellezza passata. E’ la ferita che viene nascosta e si nasconde ma che se guardi bene, vuole essere vista, curata, pulita.
Devi fare attenzione, perché non è facile, per chi l’ha così ben celato, accettare quello straccio sbiadito, ricordarselo nuovo di zecca, profumato di colonia, di infanzia, di gioco, di sogni di bambino.
Tremano quando finalmente possono accorgersi di averlo sempre con sé, quel lembo di stoffa mal messo, quel fazzoletto di cui sono il nodo umano per ricordarsi che si è stati feriti. Per evitare di esserlo ancora. Quell’ancora è talmente doloroso che è meglio ridere, sedurre, giocare con il cibo, gli sguardi, le onorificenze, segnali di un “va tutto bene” di superficie che non potrà però, mai essere del tutto reale. Perché possiamo fingere benissimo ma fino a che non ci si prende cura di quel pezzo di storia stropicciato, la tranquillità potremo solo imitarla, posticcia.
E tu, psicolog*, sei la risposta a quella richiesta di aiuto mimetizzata e devi accompagnare chi hai davanti a riprendersi il mancante, a riconoscersi splendid*. Forse ora ol suo fazzoletto è umido di lacrime, ma che deve, non vuole più nasconderlo.
E quando sono pronte, le persone vanno via dal mio divano. Forse meno brillanti ma più luminose. Per ognuna di queste persone capisci qualcosa di nuovo, impari un nuovo vocabolario, crei una nuova possibilità. Che sia mostrata con chiarezza o nascosta nelle pieghe delle parole o dietro un sorriso a trentadue denti, il tuo lavoro, psicolog*, sarà arrivare a rendere, quel panno liso, di nuovo lucido e ben piegato.E le persone fiere di quello che sono.
Quando hai finito te ne accorgi. Perchè le vedi uscire con uno sguardo sereno, forse un poco titubante, ma entrano di nuovo nel mondo, le vedi perdersi tra altri milioni di persone e dimenticarsi di te. E’ bellissimo.
Un po’ ti manca, ma sei anche felice di non vederl* più su quel tuo divano. Perché la magia della psicologia è anche quella di poter salutare, di avere sempre qualcosa per cui ringraziare chi va via e, anche grazie a loro, avere nuova energia per chi arriva.
Un grazie a tutte le persone che hanno avuto voglia di entrare in uno dei miei studi. Da ognun* di voi ho imparato qualcosa di me.
Grazie anche alle colleghe e ai colleghi, presenti e futuri, che mi spingete a migliorare con la vostra energia e bravura e anche a voi che mi ricordate che tipo di persona -oltre che psicologa- non voglio essere.
Grazie a Rosathea Pontecorvo per questa prima illustrazione. Spero non sia l’ultima insieme.