
Blood (2013)
***Segnalazione di SPOILER *** Per chi non avesse visto il film, e ne avesse desiderio, leggere potrebbe essere spiacevole, quindi, onde evitare di rovinare la visione, consiglio la lettura di questa recensione in un secondo momento.
“Blood” è un film inglese di Nick Murphy del 2013. Non parla di quello di cui sembra parlare.
Il sangue del titolo ( questo significa Blood in inglese) non è quello delle vittime che si vedono sanguinare, una giovane ragazzina e il suo presunto assassino, poi innocente, giustiziato dai fratelli detective della polizia Joe ( Paul Bettany) e Chris ( Stephen Graham) Fairburn. Il sangue di cui si parla è quello che lega i due fratelli, quello della violenza subita, se solo psicologica non è dato sapere, durante una vita vissuta al fianco di un padre violento nei modi e nelle parole, un uomo a capo della polizia per lungo tempo e sempre pronto a raccontare i metodi violenti con cui era possibile estorcere confessioni. Blood è un film sulla violenza di certi rapporti, su come l’aria che si respira, le radici che ci tengono nella terra siano spesso dolorose, impediscano di usare le nostre gambe per andar lontano, dove essere adulti liberi di vivere la propria vita completamente. Il film soffre un poco l’aver sintetizzato i temi della miniserie televisiva da cui è tratto “Conviction” ma a ben guardare i temi, la sofferenza psicologica, la violenza, i legami familiari dolorosi sono ben accessibili e visibili.
Il film si mostra come una sorta di terapia familiare, sebbene inconsapevole.
Probabilmente i miei occhi sono “deformati” dal mestiere ma c’è in tutto il film una vera storia che si nasconde sotto quella che avrebbe dovuto renderlo attraente per gli spettatori. In superficie si parla di un omicidio e di come si risolva. In profondità è un film sulla difficoltà di liberarsi dalla propria famiglia, sull’espiazione, sul dolore di essere bambini adulti alla ricerca dell’approvazione del padre. Cresciuti all’ombra di un padre aggressivo, che mostra con spavalderia la sua violenza usata “a fin di bene” sui cattivi della città, i due fratelli anche se adulti non sono liberi di essere loro stessi, legati alla cura del padre ormai anziano e con una chiara demenza senile, i due uomini sono incompleti e incerti. Uno fragile e alla ricerca dell’approvazione del padre, sempre pronto a chiedergli se ha fatto “una cazzata” e in difficoltà nel gestire relazioni se non “di forza” ( come con la figlia adolescente), l’altro incapace anche di costruire una sua famiglia, legato ad una donna con cui non riesce a fare il passo di prendersi la responsabilità di un matrimonio, ferito nel suo essere sempre secondo al fratello, non saprà opporsi alla violenza quando questa prenderà il sopravvento. Cercando di fare come il padre gli ha insegnato, compiono in un raptus un omicidio, un presunto colpevole, poi scoperto innocente. Tutto nei luoghi della loro infanzia, dove il padre prima di loro usava la violenza come arma per far parlare chi doveva.
La storia non ci racconta cosa sia accaduto nell’infanzia di questa famiglia, ma dalle loro dinamiche, dai loro silenzi, dalla loro paura di vivere e dal bisogno di controllare tutto si evince una debolezza in questi fratelli propria di quei bambini che sono cresciuti respirando violenza e che ne hanno fatto una loro compagna, restando prigionieri, non riuscendo a liberarsene, anzi manifestandola in piccoli, grandi comportamenti. Il clima del film, sostenuto da paesaggi gelidi, cupi, è in tono con il malessere di questa famiglia, ancora legata alla figura del padre, ancora piegata dal peso di quest’uomo che in fondo è stato incapace di crescere degli uomini ma vede accanto a se, due bambini feriti. Solo nella colpa, finalmente, il grande Joe potrà ammettere al padre di non essere stato capace di non fare cazzate, di aver sbagliato ma in quell’errore si intravede la possibilità di una vita libera finalmente dall’ombra del padre.
La figura del collega dei fratelli Fairburn, Robert, (un silenzioso Mark Strong) sarà il terapeuta della famiglia.
Silenziosamente accompagnerà i fratelli a prendersi le loro responsabilità, fino alla confessione, fino all’espiazione. Sarà lui a permettere a Joe un’ultima visita ai luoghi dell’infanzia, dove il padre aveva tessuto il suo potere capace di irretire i suoi figli e in questa ultima passeggiata, simbolicamente, Joe sarà capace di prendere le distanza da suo padre per essere pienamente se stesso, accettando le sue responsabilità. Dopo che aveva raccontato come il padre gli aveva sempre detto di abbottonare il cappotto sin da bambini, e lui aveva sempre fatto anche da adulto, finalmente Joe si “sbottona”, accettando la realtà che ha costruito, forse potendo andare avanti.
“Quando eravamo bambini papà diceva che se non avessimo abbottonato i cappotti il vento ci avrebbe soffiati via, verso il mare. Noi gli credevamo, almeno finché non abbiamo capito che era un essere umano e che inventava storie come questa solo per spaventarci.”
Pollicino: I bambini che crescono all’ombra della violenza L’Orco : Le relazioni familiari dove ci sia stata violenza L’arma segreta : Andare oltre le proprie radici, usando le proprie gambe per diventare altro.